Oggi torniamo a parlare di sostenibilità, e in particolare di moda sostenibile, attraverso il termine greenwashing. Si tratta di una strategia di marketing e comunicazione che utilizzano le aziende per costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.
Tutte le aziende possono fare greenwashing, ma qui ci concentreremo sulla moda. Prima di cominciare con gli esempi, è importante stabilire cosa vuole dire la parola sostenibile. Di solito le aziende di moda che fanno greenwashing si concentrano principalmente sui materiali. Quindi utilizzando cotone biologico, o addirittura seta di arancio e pelle di ananas. Sostenibilità però significa anche non produrre materiale in eccesso, mentre le maggiori catene del fast fashion producono 52 collezioni l’anno. Significa anche rispettare i diritti umani delle persone che producono per te i vestiti, anche se non sono tuoi dipendenti diretti, e pagarli con uno stipendio che gli consenta di vivere dignitosamente, qui un articolo del 2019 e qui uno del 2018 che ne parlano.
L’esempio più eclatante è quello di H&M. Dopo la tragedia del Rana Plaza di cui parlo qui, l’azienda mise in moto un’enorme strategia per migliorare la sua immagine che è ancora in atto. Se frequentate H&M avrete sicuramente in mente la loro collezione Conscious. Una mini collezione dove gli abiti sono prodotti con materiali sostenibili. Basta questo per definire l’azienda sostenibile? Certamente no. La stessa struttura di H&M non può esserlo: per una mini collezione con materiali sostenibili, avete il restante 99% prodotto con materiali scadenti. Le aziende del fast fashion, per quanto si impegnino, non possono diventare sostenibili, dovrebbero cambiare il loro modo di produrre, le quantità e soprattutto il prezzo finale al consumatore. La collezione Conscious è pura e semplice strategia di marketing per farvi comprare vestiti che costano di più perché, hey, la qualità si paga.
Sul sito internet ci sono numerose pagine dedicate alla sostenibilità attraverso la trasparenza (tutti possiamo venire a conoscenza del processo produttivo, dai tessuti alla realizzazione finale) e impegnandosi per rispettare il diritto dei lavoratori. Possiamo avere la certezza che i diritti dei lavoratori vengano realmente rispettati? No purtroppo. Si parla di controlli effettuati nelle fabbriche, ma come possiamo sapere che questi controlli non vengano programmati? Non c’è una legge che tuteli i lavoratori in Bangladesh e in Vietnam, non ci sono enti terzi che possano vigilare.
Zara è arrivata tardissimo a parlare di sostenibilità. La sua linea “green” si chiama Join Life. Anche in questo caso sul sito ci sono molte pagine dove l’azienda ci spiega i suoi impegni, si parla più che altro di promesse per il futuro. Tantissime promesse, pochi fatti. Senza contare che bisogna essere a conoscenza che Join Life sia il nome della loro linea sostenibile per accedere a queste informazioni, altrimenti è impossibile trovarle.
Parlando di aziende italiane, Intimissimi ha lanciato a febbraio la sua “Green Collection”. L’azienda non si preoccupa neanche di parlare di un piano per la sostenibilità o di impegni per rendere la propria catena produttiva sostenibile. Si parla semplicemente di una mini collezione realizzata con materiali naturali. Questo dimostra che la sostenibilità e l’attenzione ai materiali stanno diventando sempre più di moda, quindi vedremo moltiplicare queste collezioni green. La maggior parte dei consumatori non approfondisce questi temi, quindi crederà sul serio di comprare in modo più consapevole acquistando questi prodotti.
So che a molti potrebbe sembrare difficile trovare alternative a questi grandi marchi, che sono ovunque nelle nostre città. In realtà oggi non è così difficile, vi lascio qui il link al sito “Il Vestito Verde”, dove potrete trovare anche una mappa con tutti i negozi eco, vintage e second hand vicino a voi.
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